Chiara Segrado

(Palmanova 1976) Friulana di origine, temporaneamente a Roma, con una grande passione per il mondo, le sue storie e le sue diversità. Ha vissuto in Brasile, nel Sud dell’India, e in Egitto, e grazie al suo lavoro con l’organizzazione non governativa Save the Children ha avuto il privilegio di entrare in luoghi e conoscere persone che le hanno insegnato molto: dalle tendopoli di Haiti ai templi del Nepal, tra i confini balcanici da Sarajevo fino ai bunker delle spiagge albanesi, dagli sperduti campi Rom della Serbia ai muri palestinesi, fino alle piccole scuole africane, dove i bimbi imparano a scrivere con dei piccoli legnetti sulla nuda terra e le mamme spesso non hanno più di 15 anni.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Dopo la laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche a Gorizia avevo soltanto voglia di esplorare il mondo e di stare “sul campo”. A distanza di qualche anno e di parecchi chilometri sulle gambe, un cerchio si è chiuso ed ora mi occupo di diplomazia multilaterale. Lavoro per il Governo di Sua Maestà la Regina Elisabetta come vice dell’Ambasciatore del Regno Unito presso le Agenzie delle Nazioni Unite basate a Roma, occupandomi in particolare del settore umanitario. È un lavoro basato principalmente sulle relazioni, in cui si trascorrono lunghe ore in consultazioni e negoziazioni. Che hanno, però, l’obiettivo di contribuire al funzionamento della macchina delle Nazioni Unite che porta aiuti, in particolar modo alimentari, alle popolazioni sotto assedio della Siria, nei villaggi yemeniti, o nei campi profughi dell’Etiopia. Trovo estremamente affascinante seguire le dinamiche politiche che alla fine spiegano i tanti “perché” dell’attuale situazione internazionale. Una posizione privilegiata per capire il mondo e le sue dinamiche, e discuterne quotidianamente con persone delle nazionalità più disparate. Come mi trovo da italiana a lavorare per un’ambasciata straniera? Molto bene. Alle volte devo fare qualche sforzo in più per conoscere meglio il Governo per cui lavoro, il suo orientamento e l’impatto sul nostro lavoro quotidiano qui a Roma. Ma ho il vantaggio di conoscere il contesto locale e molto spesso il tempo trascorso tra i corridoi della FAO o del World Food Programme mi fa sentire davvero in un luogo senza distinzioni né confini.

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

Negli ultimi dieci anni, i bambini sono stati il filo conduttore della mia vita. Il lavoro con Save the Children mi ha fatto incontrare bimbi in situazioni davvero complesse, sfruttati, relegati, incompresi. Di storie ne ho viste ed ascoltate tantissime: dalla piccola bimba palestinese che – unica sopravvissuta alla distruzione della sua casa durante un bombardamento – risvegliandosi sotto le macerie mi ha raccontato di aver riconosciuto la sua mamma “ormai senza la schiena”, alla ragazza Rom cosparsa di benzina e quasi arsa viva dal padre per aver scelto di collaborare con un’associazione di volontariato; dai minuscoli bimbi di un asilo del Malawi intirizziti sotto la pioggia battente con addosso delle infradito e pezzi di stoffe colorate, ai ragazzi rinchiusi in carcere minorile in Albania con il desiderio di affacciarsi al mondo tramite Facebook, ma picchiati di nascosto dalle guardie negli ascensori, unico luogo in cui non funzionano le telecamere; dalle giovani donne nepalesi rinchiuse in anguste cantine o nelle stalle perché considerate impure nei giorni immediatamente successivi al parto, alle loro coetanee indiane in paziente attesa di una visita medica dell’unica clinica mobile presente negli slum di Mumbai. Un’immagine molto forte che ho davanti agli occhi, ogni volta che li chiudo, è quella dei bimbi orgogliosi nelle loro divise scolastiche sui banchi improvvisati tra le macerie del terremoto che nel 2010 ha distrutto Haiti. E poi le parole che mi hanno rivolto. Mi torna in mente una famiglia di Gaza la cui proprietà era stata totalmente distrutta. Mentre sedevamo in quello che un tempo era stato il loro giardino, mi hanno offerto del miele, l’ultimo barattolo rimasto delle arnie ormai ridotte in cenere. «Te l’offriamo volentieri perché ci stai donando qualcosa di molto più importante per noi: il tuo tempo, la tua attenzione», mi hanno detto. Quando si è trattato di dare alla luce il mio di bambino non ho avuto dubbi, ed ho scelto di partorire in casa, perché la sua di vita iniziasse nel modo più naturale possibile e lui si sentisse fin dai primi istanti benvenuto in questo mondo. A dispetto di tanti viaggi e di tante storie, alcune estremamente intense, è stata senza dubbio questa l’esperienza più forte della mia vita.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

In una società competitiva ed altamente omologante come la nostra, penso che l’insegnamento più importante sia rendersi conto di quanto sia bello essere se stessi, accettarsi, e far comprendere agli altri che la diversità, nelle piccole come nelle grandi cose, è sempre una ricchezza. Vorrei condividere questo pensiero non solo con i ragazzi ma anche con i genitori, perché è proprio nei primi anni di vita e nell’adolescenza che si ha maggiormente bisogno di essere accettati e valorizzati per quello che si è.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Ci sono tantissime cose che non ho ancora fatto, ma che attendono con pazienza il loro momento. Tra tutte direi una seconda laurea in filosofia – per avere la scusa di prendere del tempo per poter studiare la natura del pensiero umano – e una mostra di fotografia sociale. E forse, il sogno irrealizzabile di fare un viaggio in Sicilia per poter finalmente incontrare Fanco Battiato davanti ad una tazza di tè alla menta.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Gabriella Pacini, la mia ostetrica. Che comprende pienamente la natura delle donne con cui lavora, rispettando fino in fondo le loro scelte, purché siano davvero le loro. Che assiste i parti in casa con una presenza allo stesso tempo silenziosa e forte, ma che rispetta anche chi invece fa delle altre scelte. E che – forte della sua esperienza – scrive sceneggiature per cortometraggi e pièce teatrali, per denunciare le frequenti situazioni di violenza in sala parto a cui sono soggette tante donne, ma di cui in pochi parlano. Un esempio? «In Italia 4 donne su 10 ricevono un taglio cesareo. Mancato impegno della parte presentata – la partoriente – è l’indicazione più frequente» (citazione dal corto La prestazione–Sex like birth). Insieme ad altre persone, fa parte di un gruppo di azione chiamato Freedom for birth che promuove la libertà di scelta ed autodeterminazione delle donne al parto ed in gravidanza, su aborto e contraccezione: una sfida importante e assolutamente necessaria in un Paese come l’Italia.

 

14 ottobre 2016