Marco Savini

(Roma 1974) Si occupa di computer grafica, volo acrobatico, e nuove tecnologie nel campo della visualizzazione. Fondatore di BigRock, una delle scuole di computer grafica più importanti d’Europa, ha scritto qualche libro su Maya, fatto parte degli AdobeGuru di Adobe, programmato un navigatore aeronautico su iPad, ed è – cosa più importante di tutte – co-autore di due piccoli Savini.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Lavoro a BigRock, una scuola di computer grafica, ed è decisamente la cosa più emozionante che sto facendo in questo momento. Una volta ho letto che “ogni tecnologia sufficientemente evoluta è indistinguibile dalla magia”, ed è per questo che BigRock si chiama Institute of Magic Technologies. A BigRock sono a contatto ogni giorno con ragazzi a cui brillano gli occhi. Si viene qui per diventare bravi a fotografare o a riprendere cose che ancora non esistono; per capire come fare effetti speciali; per creare videogiochi o lavorare con la realtà virtuale. Ma prima di tutto si entra a BigRock per imparare che tutto è assolutamente possibile. Perché il trucco – la cosa che rende davvero emozionante lavorare in questa scuola – è prendere un ragazzo di vent’anni e renderlo consapevole che arriverà un momento ben preciso nel quale tutto il mondo sarà nelle sue mani. Un momento che durerà magari poco, ma nel quale toccherà a lui fare la differenza. Spesso, per far capire ai ragazzi questo concetto, tiriamo fuori una foto in cui si vede un cielo con una sola stella e delle montagne sullo sfondo. Poi chiediamo loro: “notate qualcosa di strano in questa foto?”. Rispondono sempre tutti abbastanza velocemente, e sempre tutti la stessa cosa: “niente… forse solo quella piccola stella”. È in quel momento che comincia la magia. “Questa foto”, diciamo ai ragazzi, “non è stata scattata sulla Terra. Questa foto è stata scattata da Curiosity. Queste montagne sono Marte, e quel puntino luminoso che vedete non è una stella, è la Terra. Tutti noi, con le nostre invidie, i nostri confini, le nostre guerre, siamo tutti dentro quel piccolo puntino quasi inutile che avete a malapena trovato nell’immagine”. Restano a bocca aperta, e tu affondi il colpo. “Visti da Marte non siamo niente. Siamo piccolissimi rispetto a tutto ciò che c’è ancora da scoprire. Tra non molto metteremo piede sul pianeta rosso, le stime dicono più o meno tra una quindicina d’anni: giusto il tempo che servirà a voi per finire le scuole superiori, laurearvi, diventare piloti, mandare il vostro curriculum alla NASA o a SpaceX, diventare astronauti e decollare alla volta di Marte. Perché su quel pianeta sarà un trentenne a metterci piede per primo. Sarà uno di voi. Ma se voi non siete consapevoli di questo, allora tutta l’umanità dovrà aspettare la generazione successiva. Dovrà aspettare quelli dopo di voi”. C’è anche una seconda foto che uso spesso: un distinto signore ottantenne, con gli occhi penetranti e un maglioncino nero. Non lo riconosce nessuno, nemmeno quando dico che è Leonard Nimoy. Poi aggiungo: l’attore che faceva Mr. Spock in Star Trek, e tutti annuiscono. Quando è morto, nel 2015, Samantha Cristoforetti era in orbita, e per rendergli omaggio ha fatto una foto con il segno della mano tipico dei vulcaniani. Mi piace pensare che la computer grafica abbia un po’ di questo: ti aiuta a pensare e realizzare Star Trek, e ciò ispirerà una ragazza magari ancora bambina o adolescente che deciderà da grande di voler andare nello spazio, e che alla fine ci andrà per davvero. Ecco, a BigRock proviamo a cambiare il mondo un pixel alla volta, perché basta davvero che anche uno solo dei nostri ragazzi si convinca di poter realizzare l’impensabile per sperare che succeda veramente. 

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

Ne ho fatte davvero tante, sono stato fortunato fino ad oggi. Ma tra tutte ti rispondo senza esitazioni: diventare pilota acrobatico. Perché volare a rovescio, portare l’aereo in ogni configurazione possibile, muoversi in aria in un modo molto simile a quello di un uccello, è davvero una sensazione fuori misura. Il volo mi ha accompagnato per tutta la mia vita, sono stato in mezzo ai piloti da quando sono nato. Poi crescendo sono finito dall’altra parte: ho lasciato il volo e la vita militare per passare ad una vita fatta di artisti, di persone che rompono le regole, che rinnegano gli schemi. Questa cosa all’inizio mi ha spiazzato, ma presto mi sono accorto che molte delle cose che fanno parte del rigore militare sono comuni alla vita di molti artisti. Perché per rompere le regole bisogna prima averle rispettate. Bisogna prima averle conosciute e fatte proprie. Solo allora si possono infrangere, solo allora si può provare a crearne di nuove. A BigRock, ad esempio, le lezioni iniziano alle 9.30. Se arrivi anche solo con un minuto di ritardo, ti rimandiamo a casa e torni il giorno dopo. Perché la puntualità – che poi vuol dire il rispetto del tempo degli altri – è una delle regole più importanti da seguire. E siamo così rigorosi nell’applicare la “sanzione” che nessuno fa tardi la mattina. Essere artisti, pensare fuori dagli schemi, inventare, immaginare, sono tutte cose che richiedono passione, devozione, perseveranza. Più queste qualità sono presenti in un artista più c’è la seria possibilità che il suo sogno – per quanto incredibile sia – diventi realtà. È straordinario quante volte mi sia già capitato di vederlo succedere. Negli ultimi dieci anni ho visto centinaia di ragazzi entrare a scuola senza saper fare altro che spostare il mouse su e giù per lo schermo del computer. Vederli faticare, studiare, perseverare, sbagliare, rifare e sbagliare ancora per poi rifare ancora meglio… mille e mille volte. E poi li ho visti cambiare, partire, e arrivare esattamente là dove avevano sempre sognato di andare. Ogni volta che salgo sull’aereo e provo una nuova acrobazia mi torna in mente proprio questo: che l’esperienza più interessante che possiamo fare è capire come definire nuove regole dopo aver imparato a rispettare quelle che qualcun altro ha definito prima di noi. Non poteva essere che questa la lezione più importante su cui fondare una scuola.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

Ho imparato a non avere paura di costruire e poi perdere – dall’oggi al domani – tutto quello che avevo costruito. Ad essere onesto, non so se ho proprio imparato a non avere paura del tutto, ma di certo ho imparato ad averne meno di quanta ne avessi in passato. Come ho fatto? Facendo errori. Perché sono quelli i momenti in cui la vita prende una piega inaspettata, in cui se sei presente a te stesso mentre sbagli hai una seria occasione di migliorare davvero. La maggior parte delle persone sono terrorizzate all’idea di sbagliare e passano la vita ferme nel posto in cui sono arrivate. Alcune si accorgono solo troppo tardi che sarebbe valsa la pena correre un rischio. Non so se sia dovuto al fatto che si ha paura di perdere ciò che uno ha accumulato fino a quel momento. Di certo esiste la paura di essere giudicati. Purtroppo tentare, sbagliare, e riprovare non è qualcosa che ci insegnano da piccoli. Io rappresento un’eccezione: sono figlio di militari e sin da bambino, ogni due o tre anni, cambiavamo città, cambiavo amici, cambiavo scuola, cambiavo dialetto e modi di fare. Ogni due o tre anni la mia vita ripartiva da zero, come se fossi un’altra persona. Non c’era internet, e per sentire che fine facevano i tuoi amichetti delle elementari dovevi scrivere delle lettere. Ma dopo un po’ non si scriveva più: ti perdevi tutti e ripartivi da capo. Stessa cosa quando sono andato via di casa: prima all’accademia dove sono diventato pilota; e a seguire le dimissioni, con questa idea di reinventarmi inventando qualcosa io, che è diventata poi la mia prima azienda. Una mail mandata ad una società americana all’epoca abbastanza sconosciuta, con l’obiettivo di farmi assumere. Dopo nemmeno un giorno ricevo una mail di risposta. Tale Steve Upstill. Non avevo idea di chi fosse. La società era la Pixar. E Steve Upstill era uno di quelli che avrebbe scritto la storia con RenderMan, il motore di rendering della PIXAR. Oggi sento tanti ragazzi lamentarsi che non ricevono nemmeno risposta alle loro mail. Vero, e triste. Io ho avuto fortuna venticinque anni fa, probabilmente era un’altra epoca. Ma è pure vero che una cosa fu fondamentale allora, e lo resta oggi: mandarla, quella mail. Tentare. La mia vita sarebbe andata diversamente se non ci avessi neppure provato. Avevo compiuto vent’anni da poco, avevo messo insieme quattro amici, e mi era parso normale a quell’età dividere per quattro. Ma dopo un po’ è diventato chiaro che il 75% era più del 25%. Gli altri tre alla fine mi hanno licenziato, ed anche lì – a conti fatti – è stata la cosa migliore che mi potesse capitare, dato che mi ha permesso di inventare BigRock ripartendo ancora una volta da un foglio bianco. La cosa bella, di cui ti accorgi solamente con gli anni, è che quel foglio non è mai così bianco ogni volta che riparti. È come fare un disegno: ti impegni, non ti pare un granché, però invece di buttarlo via ci metti sopra un altro foglio bianco e inizi a ricalcare, ma questa volta ricalchi solo i tratti necessari, e il disegno migliora sempre di più, ogni volta che appoggi un foglio e ricominci a ricalcare di nuovo. Ad una platea di studenti direi questo: non si sbaglia mai del tutto, imparate che i fogli non finiscono.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

A metà corso portiamo i ragazzi nel deserto, tra lo Utah e la California. Siamo 10 jeep, e le regole del viaggio sono poche e semplici: la macchina numero 1 sceglie la strada; ogni giorno la macchina numero 1 è guidata da qualcuno di diverso del gruppo; non si può per nessuna ragione fare retromarcia; non si possono usare cartine; e soprattutto non bisogna lasciare nessuno indietro. In media siamo, ad ogni viaggio, una cinquantina di persone. La maggior parte ha vent’anni o poco più e non ha mai preso un aereo per un volo di più di due ore, figuriamoci guidare una jeep in mezzo al deserto dall’altra parte del mondo! Quando siamo pronti per avventurarci, diciamo a chi guida la jeep numero 1: “Oggi sei tu il capo, portaci dove vuoi, siamo tutti con te adesso”, e lo facciamo perché essere il capo, essere “quello che comanda”, è una cosa terribilmente affascinante quando hai vent’anni. Prova a pensare per un attimo: avere la possibilità di essere dall’altra parte del mondo, con una strada infinita davanti, e poter fare esattamente quello che ti passa per la testa. Solo che presto ti rendi conto che fare il capo non è una cosa così bella come hai sempre creduto. Ti accorgi che hai la responsabilità di tutti quelli che ti porti dietro. Ti accorgi che fare il capo vuol dire prendere decisioni e convincere gli altri che quello che stai facendo ha un senso, anche se in quel momento nessuno lo capisce. Ben presto ti rendi conto che questa cosa assomiglia moltissimo al rapporto che uno ha con i propri genitori, quando spesso da figli siamo portati a pensare che mamma e papà non siano due persone “come noi”, che siano di un’altra generazione, che “non ci capiscono e ci dicono di fare sempre e solo cose inutili”. Quando sei nel deserto ti rendi conto in maniera netta che spesso il capo, o un genitore – ma vale anche per un professore a scuola – non prende decisioni a caso, o con leggerezza. Ma lo fa per il bene delle persone di cui ha la responsabilità, o semplicemente anche solo per portare a termine un lavoro che richiede di dover mettere insieme moltissime teste. Capisci che anche coloro che stanno nella jeep numero 2 o nella numero 7 – che anche le ultime ruote del carro – sono tutti estremamente importanti, che per portare a termine il proprio sogno c’è bisogno della parte di tutti, c’è bisogno di essere una cosa sola. Quando torni a casa da un viaggio così non sei più la stessa persona, guardi il mondo in maniera completamente diversa. Sono stato nel deserto con i ragazzi di BigRock decine di volte, un’edizione del master dopo l’altra, e lo faccio perché così posso apprezzare quello su cui metto le mani ogni giorno: BigRock è una cascina di campagna che svetta in mezzo al niente, tra campi coltivati, piante, e aria pulita. Con dentro il massimo della tecnologia. E siamo così abituati a maneggiare ogni giorno cose altamente sofisticate e di avanguardia che ci sembra quasi normale ciò che abbiamo qui. L’esperienza nel deserto è diametralmente opposta, ci costringe per giorni a stare nel niente, e senza niente – e in questo modo ci fa apprezzare il meglio dei due mondi: uno visionario, nel senso quasi letterario di avere una visione di ciò che ancora non esiste; l’altro fatto di elementi semplici e naturali che resistono immutati da centinaia di migliaia di anni. Per questo la cosa che non ho ancora fatto, e che invece un giorno vorrei fare, è volare fino al bordo dell’atmosfera, vedere la curvatura della Terra, vedere il nero assoluto e il blu intenso del cielo, perché so che mettendo anche solo il naso sul bordo dello spazio tornerò a casa con la consapevolezza che là fuori c’è un universo intero da scoprire e che qui stiamo davvero perdendo tempo a farci la guerra tra di noi invece di girovagare tra le stelle riempiendoci di meraviglia. 

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Il mio compito è diventato scovare sognatori, così sono entrato in contatto con persone decisamente fuori dal comune, come Corrado Rusalen, che montava cucine fino a quando non ha deciso che forse era il caso di mollare tutto per inseguire le proprie passioni ed ora è uno dei più bravi piloti acrobatici che conosco. Oppure Alex Bellini, che ha fatto due oceani a remi, un continente a piedi, e che non sa stare fermo per più di qualche mese senza cercare e sperimentare. E poi ci sono Mario Ferrante e GB Molinaro, due solisti delle frecce tricolori, anni diversi, storie diverse, ma accomunati da questo:quando parlano hanno il dono di stregarti, di darti la percezione immediata di come ci sia davvero poco che non si possa fare, di come sia davvero “solo” una questione di perseveranza, follia, studio, e divertimento. Vado avanti? Tutti quelli che lavorano a BigRock – la lista è lunga! – perché nessuno di loro faceva il lavoro che fa oggi, e perché grazie alla loro passione smisurata sanno come rendere magiche le cose. E poi Riccardo Donadon, che in più di un’occasione mi ha spiegato che fare cose “normali” è una cosa “normale”, che bisogna sempre provare a fare cose fuori dal comune, e che in ogni caso – comunque andrà a finire – uno avrà fatto sempre poco. Su tutti, però, le due persone che mi hanno colpito di più e su cui ripongo più speranze sono senza dubbio Mattias, inventore,sognatore e forse ingegnere, con un sorriso ipnotico; e MariaSole, bellissima donna, pilotaacrobatico, disegnatrice per adesso e chissà cos’altro tra non molto. Mattias e Mariasole oggi hanno – rispettivamente – 4 e 8 anni, e mi ricordano ogni giorno che ho la responsabilità di provare a disegnare davvero un pezzetto di mondo in cui si potranno fare cose che oggi non ci immaginiamo nemmeno. Rispondendo a questa domanda mi è venuto in mente che è meraviglioso raccontare di “persone con storie da non perdere”, ma che è ancora più affascinante pensare a “persone che diventeranno bellissime storie da raccontare”, perché è in questa piccola differenza che risiede il vero segreto del nostro futuro: nel primo caso possiamo trarre ispirazione, nel secondo caso dipende tutto proprio da noi.

 

1 giugno 2017