Carlotta Colli

(1982 Reggio Emilia) È il nostro Console Generale a Ho Chi Minh City — ex Saigon — in Vietnam. Prima di lei, il Consolato semplicemente non esisteva. La Farnesina l’ha mandata ad aprirlo, due anni fa, quando aveva da poco passato i trent’anni. E lei per riuscirci si è rimessa in gioco, giorno dopo giorno e per parecchi mesi, contribuendo anche a reinventare uno dei mestieri in assoluto più codificati, e apparentemente immutabili. Il tutto grazie alla fiducia dei suoi capi, ad una buona determinazione, e alla sua totale incapacità di stare ferma, chiusa in una stanza, seduta ad una scrivania.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Molte cose, perché in questa città così ricca di storia e cultura — un luogo quasi mitologico per tanti occidentali — ho la fortuna di fare un lavoro che mi emoziona ogni giorno. Se però penso a qualcosa in particolare, allora è un progetto per i ragazzi italiani e vietnamiti: il primo programma di scambio giovanile tra i due Paesi. Ci sto lavorando e il traguardo non mi sembra più troppo lontano. Da ex partecipante a scambi interculturali trovo entusiasmante l’idea di gettare una rete di piccole ma potentissime connessioni e vedere quali straordinari raccolti porterà, magari tra dieci o quindici anni.

 

L'esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

Aprire il Consolato Generale d’Italia qui a Ho Chi Minh City. È stata senza dubbio l’avventura più straordinaria che mi sia mai capitata: molto faticosa, ma anche voluta e vissuta fino in fondo. Essere spedita, letteralmente, dall’altra parte del mondo, a rappresentare il tuo Paese e quindi con una veste profondamente istituzionale. E allo stesso tempo vivere tutto questo con lo spirito dell’esploratore, di chi non può sapere cosa troverà davvero. Perché se anche qualcuno prima di te c’è stato, nessuno — esattamente quella cosa lì che adesso chiedono a te — l’ha mai fatta prima. Diciamo che partire da “piccoli pionieri” e vedere prendere forma, giorno dopo giorno, ciò che hai concepito, così come crescere a forza di provare, riprovare e ogni volta correggere il tiro, è stato un’esperienza semplicemente perfetta. Ma attenzione: perfetta proprio per la sua imperfezione, per la quotidiana ed esplosiva miscela di euforia e sconforto, di insoddisfazioni e traguardi, di imprevisti e gratificazioni. Prima o poi scriverò un libro su questa avventura: mi ha insegnato davvero molto.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

Ne scelgo due, connesse tra loro. Diffidate di chi vi dice che qualcosa è troppo difficile: bisogna sempre provare prima di credere. Dopo il mio primo insuccesso al concorso diplomatico mi è stato offerto un lavoro a tempo indeterminato. Ricordo che al colloquio mi avevano detto di rimettere la diplomazia nel cassetto, perché era «un sogno, in fondo, troppo difficile da realizzare». Sono rientrata a casa e li ho richiamati. Mi dispiaceva, ma non riuscivo a richiudere il cassetto. Oggi, quando ci ripenso, sorrido. Poi racconterei che sono sempre stata una persona molto decisa e sicura di me, ma che ho ugualmente imparato come sbagliare e riconoscere di aver sbagliato non sia solo bello, ma possa anche dare una grande energia. E renderci quindi, al contempo, umani e titani.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Percorrere la Transiberiana e assaporare i suoi 9 mila chilometri di paesaggi, volti, culture. Prima o poi riuscirò a prendere delle lunghissime ferie e ci andrò. Ovviamente con mio marito Simone, con cui condivido la quotidiana avventura di scoprire il mondo.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Il mio «miglior amico», Vieri Velardi. Figlio di diplomatico, in 33 anni ha vissuto in dieci Paesi diversi. Ha letteralmente assorbito il mondo, e il mondo ha assorbito lui. Per anni ho pensato che non avesse radici, ma poi ho capito che ne aveva diverse, invisibili ai più ma solide. Radici capaci di farti crescere senza mai limitarti. Non ha seguito le orme del padre, e ha deciso di provare a lasciare le sue. Ha lavorato in Sudafrica e Kenya e due anni fa — appena sposato, quando gli è stata negata l’aspettativa per studio — ha lasciato il posto fisso per andare incontro all’incognito e realizzare il sogno di un Master in Business Administration. Mentre studiava è diventato papà di un bimbo che porta il nome di un viaggiatore. E oggi coordina, per Microsoft, le attività di trasferimento tecnologico verso il mondo dell’istruzione, come Senior Business Development Manager presso la divisione Education—Western Europe.

27 maggio 2016