Andrea Di Benedetto

(Salerno, 1971) Imprenditore di prima generazione, ha fondato tre imprese: 3logic, creata a Pisa nel 2001 è un’azienda di artigianato digitale, 18 informatici “nerd” che si occupano di internet delle cose; SpazioDati, con sede a Trento e Pisa, è la principale start-up italiana ad occuparsi di big data per i dati economico/finanziari delle aziende; Tunia, fondata con la sorella enologa, produce vino naturale dopo aver recuperato antichi vigneti a Civitella in Val di Chiana.Sta investendo con 3logic per aiutare alcuni team molto talentuosi a sviluppare la loro idea imprenditoriale. È dal 2013 vicepresidente nazionale di CNA con delega su digitale ed innovazione, è presidente esecutivo del Polo Tecnologico di Navacchio (Pisa), fa parte del CdA dell’Università di Siena.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Una via italiana alle startup. Da un anno faccio il presidente esecutivo di Polo Navacchio SpA, il polo tecnologico di Pisa, il più grande della Toscana e il primo in Italia (è nato nel 1999), col mandato di ridisegnarne la strategia. Stiamo parlando di 60 aziende tecnologiche, 600 persone, laboratori con l’università, ed uno dei principali nodi mondiali delle rete FabLab. Una sfida non sono inevitabilmente entusiasmante, ma anche decisiva nell’aprirmi gli occhi. Mi sono infatti convinto che il sogno americano – ancora una volta – ci abbia distratti: ci siamo fatti drogare dalla narrazione californiana sulle startup, per cui o inventi il prossimo social network o l’ultima app e pensi che sia normale che qualcuno ti dia milioni di dollari per l’idea, oppure non sei nessuno. Questa roba per il sistema italiano dei capitali, e non solo, non funziona; tra l’altro, se anche funzionasse qui da noi, non sono convinto che porterebbe a un sistema economico giusto e sostenibile per il Paese. Mentre invece sono convinto che l’Italia, con la cultura della rete, possa rifare quello che ha fatto negli anni ’60. Innervare il made in Italy col digitale: arredo, abbigliamento, macchine, cibo, turismo. A Navacchio ci stiamo concentrando sui temi di Industria 4.0 – che mi sarebbe piaciuto si chiamasse Italia 4.0, perché vale per tutto e non solo per l’industria. Le startup che cerchiamo noi a Pisa devono ibridare il digitale con la manifattura italiana (e vi consiglio di leggere Stefano Micelli che a Ca’ Foscari ha fatto un lavoro enorme nella costruzione della teoria di riferimento). Sensoristica, cloud computing, big data, internet delle cose, robotica. Grazie alle tre università pisane e al principale centro di ricerca del CNR sull’informatica abbiamo in questo campo una concentrazione di talenti e competenze davvero invidiabile. Ma soprattutto, vogliamo lavorare perché questa tecnologia non sia fine a se stessa,  mettendo questi talenti in contatto, fisicamente, con le aziende del migliore made in Italy. Spesso si dice “per un nuovo rinascimento italiano”: sono convinto che questo sia un modo concreto per farlo davvero, fuori dagli slogan. E che le nuove PMI di grandissima qualità riconosciuta in tutto il mondo, i campioni che hanno fatto crescere l’Italia mezzo secolo fa, i super-artigiani da 5 a 500 dipendenti e un mercato globale, nasceranno così.

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

CNA Giovani Imprenditori, di cui sono stato presidente nazionale dal 2009 al 2013. Ho imparato cosa vogliono dire le parole comunità, identità, epica, narrazione. Sono stati i quattro anni in cui sono cresciuto di più nella mia vita, umanamente e professionalmente. Passare dalla dimensione personale/aziendale a quella collettiva ti pone di fronte a sfide continue, ti dà maggiori responsabilità ma anche enormi soddisfazioni. Sono arrivato quasi dieci anni fa che il gruppo era molto sfilacciato, una bruttissima copia dei giovani di Confindustria di allora, e mi sono chiesto: «ha senso fare i parenti poveri di chi già è in ritardo rispetto alla contemporaneità?». Ho pensato che il Paese fosse già abbastanza provato da convegni e congressi ingessati da rituali novecenteschi – in molti casi gattopardeschi: saluti del sindaco di turno (o dell’assessore perché il sindaco all’ultimo non può), seguiti da tavola rotonda, che poi rotonda non è perché si faceva dietro una trincea  dritta che separasse per bene il pubblico dai relatori, e da ultimo le conclusioni del presidente che se va bene legge bene, se va male legge male, ma la certezza è che in ogni caso legge. Una roba ottima per la cura dell’insonnia ma del tutto inutile per gli imprenditori e men che meno per il Paese. Seguivo da un po’ le TED conferences, che ora sono parecchio di moda: così ci dicemmo “proviamo!”, ed è nata CNA NeXT. Intellettuali, scrittori, politici, imprenditori, sportivi. Tutti insieme, mischiati in modo creativo, distruggendo i rituali e le tradizioni come nella nouvelle cuisine. A teatro, in bellissimi e storici teatri italiani: sono venute fuori sessioni incredibili per stimoli e divertimento. E i giovani imprenditori di CNA erano lì a crescere ma soprattutto a dire la loro, a costruire la loro storia. Siamo diventati una comunità con i suoi legami e il suo sistema di valori, la sua narrazione di sé e la sua idea di Paese. Ho capito perfettamente, in piccolo, cosa è l’epica e a cosa servissero l’Iliade e l’Odissea. Un esperimento di cui posso parlare in modo entusiastico perché non è stato un mio merito, ma una creazione collettiva. La rivoluzione è successa quando abbiamo smesso di parlare di noi e di fare la corporazione; e abbiamo iniziato a parlare dell’Italia che vorremmo lasciare ai nostri figli. Da lì è partito tutto: ho conosciuto centinaia di giovani imprenditori veri – non giovani figli di vecchi imprenditori – che si buttavano a pesce nella peggior crisi degli ultimi settant’anni, con una impressionante voglia di attraversare il mare. Ho conosciuto politici, manager, professori, innovatori, in ogni campo più o meno bravi, più o meno disinteressati. E ho imparato che questo Paese ha energie incredibili ma che per una dinamica stranissima spesso i più bravi si sono ritratti ai margini del dibattito sulle scelte politiche e sulla costruzione del cosiddetto “bene comune”.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

Che se hai delle idee, delle energie – stamina direbbero gli anglofoni usando una parola latina – le cose poi succedono davvero. All’inizio molto lentamente, o magari per nulla. Ma poi, all’improvviso, anche nella sensazione che nulla mai potrà cambiare veramente, accadono episodi di rottura plateale, e nulla è più come prima. Ricordo una serata a sentire Baricco parlare di storie di persone che in un minuto avevano fatto invecchiare di un secolo il loro mondo. Come Dick Fosbury, per esempio. Fino al 1968 tutti avevano sempre saltato in alto a pancia in giù. Quando lui iniziò a saltare di schiena venne additato come un pazzo. Sei mesi dopo vinse le olimpiadi e tutti saltavano di schiena. La cosa più buffa è che i salti ventrali sembravano ormai comiche in stile Ridolini, ed erano passati solo sei mesi. Direi agli studenti che cambiare le cose è molto più facile di quel che si pensi, se si sa dove andare e soprattutto perché: ho imparato che dire «la questione è complicata, non si può fare» è solo un modo per insabbiare tutto. Certo che è complicata! Altrimenti sarebbe già stata cambiata.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Un figlio, spero. Sono spaventato perché siamo una generazione che ha fatto tutto tardi, abituati a dover rendere conto solo a noi stessi, non per egoismo ma per mancanza di un percorso. E così ti abitui a vivere alla giornata, tutto sommato. È il senso del futuro ad essere completamente diverso da quello dei nostri genitori. Passa il tempo e alla fine ti dici che è una responsabilità che non puoi prenderti. Poi passo una serata con mia nipote e sento che insegnarle qualcosa (o imparare da lei) è la cosa più divertente – e importante – che io possa fare. E poi – con un po’ più di leggerezza – direi: vivere per un periodo all’estero. Parliamo in continuazione di un mondo sempre più piccolo e globale e alla fine non sono mai uscito dall’Italia se non per turismo. Stiamo lavorando per una nuova avventura imprenditoriale a Boston, incrociamo le dita. Tra l’altro, vista da lì, l’Italia, è molto più bella.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

 Mi vengono in mente tre donne che hanno fatto cose molto simili in tre posti molto diversi, e ho scelto donne non a caso: hanno una determinazione e lucidità che ammiro profondamente (e invidio anche un po’). Le elenco da Nord a Sud. Ilda Curti, era assessore a Torino, “alle sfighe” come dice lei. Periferie, integrazione, riqualificazione degli spazi. Mi ha insegnato a non usare semplificazioni ed etichette nel leggere le questioni: italiani, immigrati, bianchi, neri, ricchi, poveri, destra, sinistra. I buoni e i cattivi non stanno solo da una parte, anzi non esistono. E quindi non esistono ricette semplici. Ha fatto un lavoro bellissimo nella quotidianità, con progetti e percorsi di dialogo, di conoscenza, di convivenza. Perché l’integrazione non si può fare per decreto e richiede tempo e quotidianità per superare le diffidenze. Una politica con un pensiero lungo, merce rarissima ma indispensabile. Cercate in rete cosa scrive e capirete cosa intendo. Mariella Stella, lavorava a Roma alla Croce Rossa Italiana. È tornata a Matera, a casa sua. Ha fondato Casa Netural, un “coworkig, coliving e incubatore di sogni”. È un incubatore anti-fighetto in cui si può coltivare un’idea imprenditoriale anche semplice, purché funzioni, sia utile e si sostenga. Mariella ed Andrea, il suo compagno, stanno costruendo una comunità, e chi è passato da loro dice che Casa Netural gli ha cambiato la vita. Dopo un’ora lì da loro, ad ascoltare cosa fanno, si capisce perché è vero. Florinda Saieva, a Favara, alle porte di Agrigento. La prima volta che sono stato a Favara sono passato per sbaglio dalla periferia: un degrado assurdo per una cittadina a pochi chilometri dalla valle dei templi. Florinda ed Andrea, suo marito, hanno acquistato e iniziato a recuperare un isolato in pieno centro, completamente diroccato, per farne un centro per l’arte contemporanea. Oggi ci passano dieci mila persone all’anno, fanno residenze per artisti, coworking. Ogni volta andarci è un sogno. Un’intera città, intorno al Farm Cultural Park, sta rinascendo: B&B, locali, case ristrutturate. Tutto nato dalla tenacia di due persone. I salti Fosbury si possono ancora inventare, chissà quanti altri ce ne sono in giro per l’Italia. Siamo molto meglio di quel che raccontiamo.

 

5 novembre 2016