Lorenzo Benussi

(Verona 1977) Veronese di nascita, triestino/dalmata di origine e torinese – per amore ormai da venti anni – di adozione, si è sempre occupato di innovazione e in particolare di innovazione digitale. È uno dei quei bimbi degli anni ’80 cresciuti con l’Atari 2600, il Commodore 64 e poi, più grandicello, con il Mac, che ha sempre creduto nel potere trasformativo delle tecnologie (e nelle leggi della robotica). Ha seguito in prima persona la nascita del web,  l’ascesa di Google,  di Facebook e della Pixar, la rinascita di Apple, lo sviluppo del movimento startup e ho portato per primo in Italia (assieme ad un piccolo gruppo di avanguardisti) temi come il free/open source software, l’open goverment, i big & open data, il cloud computing, le smart cities. Ha lavorato molto nel settore no-profit, in accademia come ricercatore e professore a contratto, e in organizzazioni pubbliche e private che promuovono l’innovazione. È stato consigliere di alcuni ministri – in particolare di Francesco Profumo al MIUR – di imprese quotate, di startup e di istituzioni pubbliche locali, centrali ed europee. Umanista di formazione, scienziato sociale ed economista nella ricerca, e manager per lavoro, ha una formazione realmente multidisciplare ma soprattutto ha avuto la fortuna di incontrare grandi maestri e colleghi bravissimi che gli hanno trasmesso conoscenze e competenze varie e profonde.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Da pochi mesi ho iniziato una nuova avventura professionale con la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo dove dirigo il settore innovazione e in particolare un grande progetto per le scuole che stiamo incubando in questi mesi e che si chiama “Riconnessioni”. Lo scopo è abbattere le barrire che impediscono alle scuole di innovare: barriere fisiche, tecnologiche, culturali. Il metodo è olistico e industriale: olistico perché costruiamo sia una nuova rete in fibra ottica per le scuole (che darà 1Gbts ad ogni edificio) sia un grande percorso di formazione per i docenti dove sviluppare competenze digitali e sperimentare nuovi metodi didattici; industriale perché non sperimentiamo su pochi casi ma trattiamo (per ora) tutte le scuole di Torino e cintura. Si tratta di un grande investimento per l’istruzione, principalmente privato, probabilmente il più grande che sia mai stato fatto in Italia. Sento di vivere un luogo, e di occuparmi di una questione sociale, di avanguardia e la cosa mi appassiona molto. Sono padre di due figli e lavorare per i bambini mi emoziona. Non è affatto facile, le criticità sono molte e le possibilità di insuccesso sono elevate, ma vale decisamente la pena provarci.

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

Sono un ragazzo fortunato e ho vissuto molte esperienze interessanti, ma la più cinematografica e intensa è stato probabilmente il lavoro nella Segreteria Tecnica del Ministro Francesco Profumo, cinque anni fa. Eravamo un team molto preparato di alcuni giovani selezionati e provenienti da tutto il mondo, pieni di ideali, conoscenze accumulate e voglia di scaricare a terra, ma molto poco esperti e per nulla avvezzi all’arte sottile del governare. Abbiamo lavorato tantissimo, letteralmente giorno e notte, per provare a “rivoltare tutto”, riuscendo alla fine a spostare solo qualche sassolino. Di alcune cose di quel periodo vado particolarmente fiero: ad esempio, l’introduzione del principio di disponibilità naturale dei dati pubblici nel nostro ordinamento. Si è trattato di un’esperienza totalizzante, da film, ma estremamente formativa sia per le difficoltà che abbiamo dovuto superare sia per la complessità affrontata e soprattutto per i rapporti professionali e umani che mi ha lasciato. Prima o poi lavoreremo ad una sceneggiatura per farne un film in stile “Il Divo” o, perché no, un musical. 

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

Una lezione semplice. Ho imparato che la passione è la cosa più importante nel lavoro – è più in generale nella vita – perché senza passione non riesci a sviluppare tutte le energie necessarie a realizzare qualcosa di nuovo. Se il tuo lavoro non ti appassiona non ci crederai abbastanza, non ci penserai da quando fai la doccia la mattina a quando spegni la luce la sera, non studierai, non leggerai, non ascolterai tutto quello che puoi ma soprattutto non ti divertirai. Oltre alla passione aggiungerei la sensibilità, che è poi quella qualità complementare che ti permette di guardare i fenomeni con un occhio clinico, nel senso etimologico del termine, e di capire come si evolverà il tuo lavoro. Insomma – direi agli studenti – fate in modo che il vostro lavoro vi piaccia, altrimenti non riuscirete ad essere veramente bravi e soprattutto non riuscirete ad essere felici.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Più di una, temo. Professionalmente vorrei fare un’esperienza in una grande organizzazione internazionale, possibilmente privata e possibilmente asiatica o californiana – adoro la Cina, il sud-est asiatico e la cultura hippy/bit della bay area. Personalmente invece vorrei attraversare l’Atlantico in barca a vela. È un desiderio che ho fin da ragazzino. Probabilmente scoprirei che in realtà è molto noioso, due settimane di oceano blu, ma ha per me un senso profondo di avventura e scoperta.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Ho conosciuto fortunatamente molte persone interessanti nella mia vita, dal chitarrista dei Pink Floyd in un casualissimo aperitivo a Verona vent’anni fa ad un professore del politecnico di Torino che dicono abbiamo sperimentato il teletrasporto, prima di svenire ed essere ricoverato d’urgenza in ospedale. Ma se proprio devo richiamare un ricordo vero e sentito scelgo la storia dei miei due nonni, con cui ho avuto la fortuna di passare molto tempo. Figli di una terra senza patria, l’Istria che è crocevia di genti slave, germaniche, italiane e ungheresi, hanno vissuto l’irredentismo e la mitteleuropa da piccoli, lo splendore degli anni ’20 e ’30 laureandosi per primi della loro generazione e sposando entrambi due giovani donne più ricche – con storie molto distanti dal film Titanic – per perdere tutto a causa della guerra, che però entrambi decisero di combattere come medici della Croce Rossa. Scapparono lasciando proprietà, case, affetti (qualcuno morì nelle foibe, altri emigrano) e soprattutto lasciando qualunque certezza. Allontanarono i figli dai parenti perché quelle terre non sono state sicure fino alla fine degli anni cinquanta, ma non mollarono mai – come molti di quella generazione – e, nella crisi mondiale, costruirono la nostra Repubblica e l’Unione Europea. Richiamo qui questi ricordi familiari perché vorrei fosse sempre vivo, soprattutto nei giovani che non hanno avuto parenti combattenti, quel sogno di unità e pace che i nonni chiamarono Unione Europea al di là degli Stati, delle lingue e delle monete. L’unica possibilità è essere uniti, ovviamente nel futuro.

 

21 aprile 2017