Valerio Riavez

(Roma 1984) A otto anni è stato messo dai suoi genitori su un aereo per gli Stati Uniti, dove ha trascorso un mese in un campo estivo con altri bambini americani senza conoscere una parola di inglese. Da allora ha vissuto, studiato e lavorato in Inghilterra, Stati Uniti, Argentina e Colombia. È stato per anni a cavallo fra settore pubblico e privato, lavorando in Mediobanca, al fondo americano BlackRock, presso il Ministero degli Affari Esteri e l’Ambasciata americana a Roma, e come consulente per aziende e istituzioni pubbliche.  Ha da poco completato un percorso di studi di tre anni in amministrazione pubblica e business presso Harvard e Massachusetts Institute of Technology. Attualmente si occupa di big data e politica, ed è tra i fondatori di “Yes Europe Lab”, con cui vuole sostenere una nuova generazione di politici e attivisti europei. 

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Un anno fa ho fondato con altri studenti europei della Harvard Kennedy School un laboratorio di attivismo civico europeista, Yes Europe Lab. Il nostro obiettivo è ispirare una nuova ondata di integrazione europea sostenendo campagne di mobilitazione pro-Europa in tutto il Vecchio Continente. Ti racconto come ci sono arrivato. 
Nel 2010 lavoravo in banca d’affari a Milano. Il giorno dello spread a 600 punti base, col Paese sull’orlo del collasso, Milano era spettrale. I banchieri giravano per le strade del centro spaesati come cani randagi sotto un’eclissi solare. Non sapevamo cosa ci avesse colpiti. A quel tempo facevo stress test per capire la tenuta del sistema bancario italiano. I numeri erano quelli che erano. Ma ci ripetevano: la soluzione al problema c’è. Ma è politica. Stessa scena nell’estate del 2015. Ero ad Atene per gli stress test delle banche greche. Eravamo sui tetti di un hotel in piazza Sintagma a macinare numeri per quantificare il buco del sistema bancario. Mentre in piazza infuriavano le proteste. Il Paese era in ginocchio. Di nuovo. E la musica era la stessa: la soluzione c’è. Ma è politica.
Ma cosa vuol dire che la soluzione è politica? Allora voleva dire che i governi degli Stati Membri si dovevano mettere d’accordo sui termini dell’ennesimo salvataggio. E cosa vuol dire, oggi, che la soluzione è politica? Siamo in un momento costituente per l’Europa. Ci sono appuntamenti elettorali importanti all’orizzonte. E il progetto di integrazione Europea ha subito un duro colpo con la crisi del debito sovrano e con la Brexit. Per noi che crediamo nell’Europa, la soluzione è semplice ma ha bisogno dell’impegno personale di tutti. Questo è il momento in cui usciamo dal centro di Milano. In cui scendiamo dagli hotel di piazza Sintagma. E torniamo per le strade. Questo è quello che vogliamo fare con Yes Europe Lab. Portare l’Europa per le strade. Riconnettere il centro con le periferie fisiche e mentali di tutta Europa. Imparare ad ascoltarci nuovamente. E creare un’Europa non tecnocratica, ma “dal basso”. Un’Europa non imposta, ma condivisa.
Per ora l’ondata populista antieuropea si è infranta sulle spiagge francesi. Ma la soluzione è ancora lontana. La rabbia va capita e incanalata, non scaricata nella cabina elettorale su candidati improbabili e soluzioni non credibili. L’Europa i muri li abbatte, non li alza. Con Yes Europe Lab, vogliamo contribuire ad abbattere sempre più muri in Europa.

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

 

Decidere di invitare Luigi Di Maio ad Harvard. È stata un’esperienza umanamente molto faticosa. Sia io sia i miei compagni di Yes Europe Lab abbiamo subito molti attacchi personali anche solo per aver organizzato l’evento. Qualche relazione ce la siamo anche giocata. Ma l’abbiamo fatto convinti che andasse fatto. Uno dei capisaldi di Yes Europe Lab è la creazione di dialogo. Non ci sarà un silver bullet, una soluzione magica che risolverà in un colpo solo lo stallo dell’Unione Europea. Non ci sarà un partito unico pro-Europa che si prenderà tutte le istituzioni nazionali e comunitarie e risolverà tutti i problemi dell’Unione Europea. Il vero lavoro sarà quello di trovare, all’interno di tutti gli schieramenti che hanno un ruolo in Europa, degli interlocutori coi quali confrontarsi. L’idea di invitare Di Maio è partita proprio da questo: tendere la mano a chi la pensa diversamente da noi e verificare se ci fossero le condizioni per costruire un dialogo sull’Europa. Partendo dalla convinzione che non c’è Italia senza Europa, ma non c’è neppure Europa senza Italia. Di Maio mi è sembrato a tratti una persona disposta a dialogare e genuinamente curiosa, in altri momenti più preso da un tono e ruolo ufficiali meno dialoganti. Le ultime esternazioni del Movimento 5 Stelle su migranti ed Europa oltretutto non mi fanno sperare per il meglio.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

Fate molte domande. E ascoltate le risposte. Ascoltate la musica dietro le parole. Questi ultimi tre anni negli Stati Uniti mi hanno insegnato ad ascoltare. È un esercizio non banale. In molti casi ci preoccupiamo di cosa dire, di come apparire, di voler dimostrare di essere all’altezza. Ma molto spesso basta ascoltare. È la base per essere bravi mariti e brave mogli, genitori saggi, figli compassionevoli, buoni amici. E professionisti competenti.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Costruire i mobili del mio prossimo appartamento. Negli ultimi dieci anni della mia vita ho usato il corpo principalmente per spostare la mia testa dal punto A al punto B. Voglio recuperare la manualità. Mio nonno paterno, dopo aver combattuto entrambe le guerre mondiali, lavorava come carpentiere all’ippodromo delle Capannelle di Roma. Mio nonno materno invece come hobby smontava e rimontava orologi. Credo queste attività li abbiano aiutati a preservare la salute mentale.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Una più di tutte. Siamo cresciuti nello stesso quartiere della profonda periferia romana. Ha perso il padre in circostanze non meglio precisate e questo l’ha lanciato in una spirale di depressione, droga e tentativi di suicidio. Eravamo poco più che adolescenti quando andavo a trovarlo in un centro di igiene mentale. Capelli giallo fluorescente, bruciature di sigarette sulle braccia, gonfio e con lo sguardo annebbiato dalle benzodiazepine. Ora vive in Belgio. Fa il cameriere e si è fidanzato. È la persona più felice che conosca. La sua storia è un inno alla vita.

 

16 giugno 2017