Francesco Galtieri

(Bari 1977) Cresciuto a Matera, una delle piu antiche città del mondo, dopo il liceo è partito e ha iniziato a girare il mondo. Da quasi quindici anni lavora per le Nazioni Unite, occupandosi in 22 Paesi di consolidamento della pace, prevenzione dei conflitti e promozione del volontariato nei processi democratici, e gestendo attualmente più di un terzo di tutto il personale civile internazionale delle operazioni di pace ONU – all’incirca 4.000 persone. Sull’impegno civico ha fatto lui stesso palestra per anni, sin dall’adolescenza e più di recente con RENA, di cui è stato tra i fondatori e Segretario Generale dal 2011 al 2012. Ha visitato 86 Paesi, suona il pianoforte, crede che l’ascolto e il dialogo siano l’unico modo per tirare fuori il meglio dell’umanità.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Dopo tanti anni di lavoro con le Nazioni Unite, ho deciso di prendere una pausa di riflessione. La settimana prossima partirò per gli Stati Uniti e parteciperò ad un programma di un anno in Public Administration alla Kennedy School of Government di Harvard. Ecco, è emozionante decidere di dedicarsi del tempo per tornare a pensare. Non come ciascuno di noi pensa ogni giorno al lavoro, per cercare di farlo al meglio. Ma come uno pensa quando può permettersi di leggere, di avere tempo per conoscere altre persone, per lasciar sedimentare i pensieri, per approfondire. Ed è stimolante farlo in una delle più importanti università del mondo, assieme ad un gruppo di professionisti selezionati da più di cento Paesi che probabilmente hanno avvertito lo stesso bisogno che ho avvertito io. A volte mi dico che è un po’ un salto nel buio, perché so che queste esperienze spesso cambiano la direzione che la vita ha già preso da tempo. Ma mi sento pronto a rischiare, a rimettere in discussione un percorso di carriera ormai consolidato e abbastanza lineare, che probabilmente pochi lascerebbero senza essere costretti e che ancora meno lascerebbero per qualcosa di incerto e a tempo. Ma non posso non farlo oggi, dopo anni passati a sollecitare gli altri all’impegno quotidiano per cercare di aprire spazi di dialogo fra cittadini e istituzioni. Ho deciso di andare ad Harvard ben prima del Brexit, ma devo dire che tutto in questi giorni mi appare tremendamente tempestivo: perché sto scoprendo il senso più profondo del mio essere cittadino europeo. Gli anni trascorsi in Africa o in giro per il mondo non mi hanno fatto perdere interesse verso quella comunità – l’Europa – a cui appartengo. E quello che sta succedendo non fa altro che dare ancora più senso al mio periodo ad Harvard. Nei prossimi mesi proverò ad incubare – con altri compagni di viaggio italiani e non – cosa possiamo fare come cittadini dotati di sentimento civico. Quello che ho imparato alle Nazioni Unite, e che ho cercato di trasferire in Africa, mi pare serva adesso anche nella nostra Europa. 

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

Ogni viaggio di lavoro negli ultimi anni è stato un’esperienza unica. A volte un’esperienza vissuta attraverso l’impegno e l’esempio che i volontari delle Nazioni Unite danno ogni giorno alle istituzioni e alle persone per le quali lavorano, spesso in condizioni estremamente difficili. Port-au-Prince, Kinshasa, Baghdad, Mogadiscio, Tripoli... tutti posti dove, appena atterrato, basta incontrare colleghi e rappresentanti della società civile locale perché ti si imprimano in testa situazioni complesse e molto difficili. Sono stato di recente a Damasco, e sono rimasto colpito nel constatare l’enorme lavoro di ricostruzione sociale, politica ed economica che servirà al Paese quando il conflitto siriano sarà finito. In tutti questi contesti molto diversi ciò che davvero mi colpisce sempre è una costante: la voglia degli individui di riprendere in mano le proprie vite, di lavorare per loro, per le proprie famiglie, per la propria comunitá. Per dimostrare che esiste una maggioranza silenziosa che vuole soltanto riportare il buon senso e la convivenza civile.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

«L’impossibile non è un fatto, è un’attitudine». Lo ha detto una donna molto determinata, che ha condotto a termine una delle più grandi sfide diplomatiche degli ultimi tempi: i negoziati sul cambiamento climatico. Si chiama Cristiana Figueres, è una collega con una grande storia alle spalle, ed è impossibile – incontrandola – non capire come sia stata capace di una tale impresa. Con un cocktail di intelligenza, preparazione, diplomazia, determinazione, buon umore, e la leadership necessaria per riuscire.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

La differenza – ma non da solo, insieme ad altri. Per fare la differenza intendo una cosa diversa dall’essere bravo, o anche molto bravo, nel proprio lavoro. È qualcosa che ha a che fare con il decidere di esercitare fino in fondo la propria responsabilità individuale, e di esercitarla con tutti coloro che – sulla base di valori e di un ideale comuni – “ci stanno”. In questo momento, dopo tanti anni tra Africa e Asia, parto per l’America con in testa l’Europa. Parto sentendo questa profonda crisi di fiducia che sta attraversando il nostro continente, deciso a fare tutto ciò che potrò per contribuire a renderlo più equo e unito.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Judith Draleru, un’ostetrica dell’Uganda ed una delle nostre volontarie delle Nazioni Unite in Sud Sudan, presso l’Ospedale universitario della capitale Juba. Judith presta servizio in un programma di salute della riproduzione del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, e grazie a lei e ad altri pochi volontari come lei, il numero di ostetriche diplomate in Sud Sudan è aumentato da 7 a più di 100 nell’arco di tre anni. Oltre all’insegnamento, Judith si è trovata ad assistere centinaia di nascite in condizioni molto difficili e sempre con un solo obiettivo: fare la differenza per tante donne e neonati in Sud Sudan che altrimenti morirebbero. Lo fa perchè ci crede. E lo fa per suo figlio, al quale ha detto – prima di partire lasciandolo con i nonni – di aver avuto la fortuna di nascere in condizioni di igiene e salute che altri bambini non hanno in un Paese devastato da povertà e da un conflitto socio-politico che dura da anni. Fra i tanti volontari che incontro, c’è qualcosa di speciale in Judith e nelle altre ostetriche: il loro sorriso. Una volta le ho chiesto come mai sorridano tanto. Mi ha guardato con aria disarmante e ha risposto: «ma è normale, noi diamo la vita».

8 luglio 2016