Agostino Riitano

(Torre del Greco, 1977) Manager culturale, autore e docente, è esperto di sviluppo locale a base culturale, valorizzazione partecipata del patrimonio e delle eredità culturali e creazione di progetti d'innovazione culturale. Attualmente è Direttore di Procida Capitale Italiana della Cultura 2022 e del Comitato Promotore per la candidatura dell'Arte dell'Incisione a Cammeo nella lista del patrimonio culturale immateriale UNESCO. Insegna al Master in "Management del turismo culturale" presso l'Università degli Studi di Napoli Suor Orsola Benincasa; membro del Comitato Scientifico del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
In ambito internazionale è stato consulente di organizzazioni per lo sviluppo economico, sociale e culturale tra cui l'OCSE e il BID, Cultural Manager di Tirana Capitale Europea dei Giovani 2022, e Project Manager Supervisor di Matera 2019 Capitale Europea della Cultura. Ha scritto libri e articoli sui temi dell'innovazione culturale e sociale e dello sviluppo della città, tra cui "Artigiani dell'Immaginario. Cultura, fiducia e cocreazione" (Mimesis, 2019), e ha curato la collana Schisi – Rapporto tra Arte e Scienza per doppiozero.it

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando?

Sto lavorando allo sviluppo del progetto Procida 2022 Capitale Italiana della Cultura, con lo spirito con cui da anni mi spendo nel mondo della cultura. Quando mi domandano che mestiere faccio mi piace rispondere "artigiano dell'immaginario". Perché artigiano? Perché dell'immaginario? Le risposte non sono mai le stesse, eppure sono correlate tra loro. A seconda dei periodi possono essere elaborate o, al contrario, concise. Sono un artigiano perché ho capito che è importante geo-localizzare i problemi, ho imparato ad interrogarmi sulla loro natura, ad aprirli, a lavorare sugli aspetti concreti, sforzandomi ogni volta di dare uno spessore sociale alle mie osservazioni. Essere un artigiano, come scrive Sennet, significa essere un cittadino consapevole, che esprime la cittadinanza in termini di comportamento, quindi rendendo consapevoli e responsabili i rapporti tra sé, gli altri e il mondo. Essendo un artigiano, sono in grado di giudicare la fattura di ciò che è costruito e il suo grado di risposta alla funzione e alla socialità. Poiché il mio lavoro si traduce in un continuo ragionare sul fare, ho dovuto imparare a lavorare anzitutto su me stesso, a governarmi nel tentativo di essere uno strumento avvertito come utile dalla comunità. E l'immaginario? L'immaginario non è un semplice agglomerato di immagini contingenti e in qualche modo componibili. Ha un valore esistenziale, sia che l'uomo razionalizzi l'immagine a discapito del potere simbolico, sia che questo invece prevalga come nelle visioni poetiche. Chi lavora come me con l'immaginario opera in un dominio che le persone ereditano dalla società, spesso senza esserne consapevoli. Quello che non ci diciamo mai abbastanza è che l'immaginario ha una funzione politica. Pone questioni, apre strade. Gli artigiani dell'immaginario non accettano un immaginario acquisito, decidono di vedere qualcosa di proprio dove altri non vedono nulla. Decolonizzare l'immaginario e arrivare a restituire alle persone una capacità di immaginare è un'azione politica: Grammatica della fantasia di Gianni Rodari è rivoluzionaria.

 

Una cosa che il Covid-19 ti ha tolto, ed una che invece ti ha dato?

Il Covid mi ha tolto i luoghi della produzione culturale: il teatro, il cinema, i centri culturali. Mi ha sottratto le relazioni in forma di agorà, di cerchio. Mi ha tolto un bel po' e contemporaneamente ha rafforzato la mia convinzione che l'essenza vitale di una comunità si sostanzi con la presenza fisica delle persone nello stesso spazio-tempo. Nella dimensione rarefatta della socialità durante la pandemia, mi sono preso il tempo per ragionare, studiare e sperimentare. Ispirandomi a Stuart Kauffmann, per il quale la creazione nasce dall'interazione tra il reale e il possibile, ho promosso "adiacente possibile", un prototipo artistico che genera un futuro in sospensione dello stato delle cose, un insieme di nessi causali da intrecciare per reinventare il presente. Abbiamo avviato questo processo da una sala trasfigurata del Teatro Bellini di Napoli, senza platea, senza palco e senza orpelli. Abbiamo osservato in tempo reale le tragedie, i conflitti e le contraddizioni del mondo contemporaneo, convinti che oggi più che mai il teatro e l'arte siano l'unico dispositivo che possa restituirci catarsi e vie di fuga, a patto che ciascuno si faccia testimone e non più spettatore del presente, e quindi conservi memoria e trasmetta la propria esperienza solo dopo averla incarnata.

 

Il pensiero laterale più ricorrente di queste settimane?

Mi sento spesso come il giovane di una tribù che deve diventare guerriero e per farlo ha l'obbligo di affrontare una dura prova al cospetto della sua comunità. La mia generazione aveva messo da parte il pensiero della fondazione, della necessità di rigenerare e rinascere rinnovati, si era abituata – o forse semplicemente assuefatta –a vivere in un periodo "grasso" della storia dell'umanità. Ma nell'opulenza avevamo dimenticato che tutto il progresso che abbiamo generato ha prodotto contestualmente un'impareggiabile quantità di rischi. Non credo onestamente che viviamo in un mondo più rischioso di quello delle generazioni precedenti. Non è una questione di quantità di rischio. Il problema è la maggiore incontrollabilità delle conseguenze delle decisioni che prendiamo come civiltà. La pandemia non credo che finirà con un punto a capo, ma con dei puntini sospensivi. I puntini sono lo spazio che dovremo abitare chiedendoci che cosa vogliamo fare di noi stessi. Seppur arrivassimo ad avere un mondo privo di malattie, economicamente opulento e in pace, su cosa ci concentreremmo e su cosa impegneremmo il nostro ingegno? Io cesserei subito di assecondare i sogni e i desideri dell'antropocentrismo estremo, perché, con la piega che abbiamo preso, i prossimi obiettivi potrebbero essere soltanto miraggi come conseguire l'immortalità. La prima lezione che abbiamo imparato al tempo del Covid-19 è che è finito il tempo della "mediocrazia" al potere. Nessuno dovrà più cedere a piccoli compromessi utili esclusivamente a perseguire obiettivi a breve termine. Nessuno dovrà più chiudere gli occhi e sottomettersi a regolette sottaciute. Dobbiamo essere vigili e aver ben presente che la mediocrità degli altri rende pian piano mediocri anche noi. Mi risuonano spesso le parole de L'uomo senza qualità di Robert Musil: «Se dal di dentro la stupidità non assomigliasse tanto al talento, al punto da poter essere scambiata con esso, se dall'esterno non potesse apparire come progresso, genio, speranza o miglioramento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe». Uscire definitivamente come società dalla mediocrazia non è semplice, ma è una via che vale la pena provare a percorrere.

 

Una lezione imparata anni fa e che racconteresti ad una platea di studenti?

Molti dei maestri che ho incontrato nella mia vita hanno posto l'accento sulla capacità di ascolto. Ma è da Gerardo Marotta, avvocato e filosofo che fondò l'Istituto Italiano degli Studi Filosofici, dal suo inesauribile desiderio di portare la filosofia nel mondo e le realtà del mondo nella filosofia, che ho imparato la lezione preliminare. Ancor prima che a riconoscere le risposte utili, ho imparato a porre le domande. La domanda precede e condiziona qualunque tipo di scoperta. L'Istituto fondato e diretto da Marotta fu un centro di produzione e di incontro internazionale, le sue attività si propagavano, chiunque vi mettesse piede, studiosi, professori, giovani studenti come me, tutti erano coinvolti alla pari in qualsiasi dibattito vi si stesse svolgendo. Marotta pranzava ogni giorno con uno stuolo di allievi, nel pomeriggio altri se ne aggiungevano. Ho sempre pensato che fosse per me anzitutto un esempio etico, che mi avesse mostrato quanto ci si debba battere per affermare la cultura intesa come risorsa civile. A distanza di anni, ho poi capito che le teorie argomentate da filosofi e scienziati come Eugenio Garin, Hans-Georg Gadamer, Karl Popper, Rita Levi Montalcini, Ilya Prigogine, che si sono succeduti nell'Istituto del filosofo di Monte Echia a Napoli dovevano servire a darmi uno strumento assai potente, grazie al quale avrei ascoltato molti altri uomini e donne. Lo strumento era il domandare.

 

L'ultima volta che hai riso o sorriso?

Adesso, subito dopo aver letto la domanda. Mi fanno sorridere tante piccole cose ogni giorno. Mi vado a cercare la possibilità di sorridere, spesso soffermandomi sui volti delle persone, sulle smorfie, i dialoghi, osservo le espressioni dei passanti davanti alle vetrine dei negozi, i movimenti dei corpi alle uscite della metro. E poi ci sono i racconti degli amici, alcuni dei quali esilaranti, ti racconto l'ultimo. Il mio amico Tony, una sera, mentre passeggia nel suo quartiere, all'angolo di un marciapiede si imbatte in una cagnetta malandata. Si ferma e si accorge che è zoppa. Senza pensarci molto la raccoglie e la porta a casa. Per diverse settimane la accudisce, la cagnetta si rimette in sesto anche se il problema alla zampa rimane. Un giorno Tony si sveglia nel cuore della notte con una gran sete e si dirige in cucina frastornato senza accendere la luce. Nel corridoio nota un'ombra, si ferma e aspetta. Passa la cagnetta saltellando senza nessun problema alla zampa. I due incrociano gli sguardi nella penombra, la cagnetta come un lampo torna a zoppicare. Per tutte quelle settimane aveva simulato il suo malessere considerando che fosse quello, non lei in quanto cagnetta, ad avere un valore, ad essere la condizione per farsi riconoscere e adottare. Oggi vivono ancora insieme, e lei non zoppica più.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Iniziare una lunga camminata senza meta. Vorrei viaggiare per non arrivare, perché sono consapevole che chi viaggia per "arrivare" è diretto solo alla meta prossima o alle cose ultime. Quasi sempre, per quasi tutti, il viaggio non esiste, le terre attraversate non esistono. Conta solo la meta. Così il viaggio si spegne durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. La meta cancella l'andare e chi punta solo alla destinazione procede come un cavallo con i paraocchi. Io vorrei fare l'esperienza del viandante, abitare il paesaggio e raccogliere gli accadimenti. Vorrei entrare con garbo nelle dimore perché esse sono provvisorie, ma salvifiche. Vorrei rinunciare alle abitudini più radicate, per aprirmi ad un modello di cultura che educa perché non immobilizza, perché de-situa, perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare strutture.

 

Il 6 ottobre 2019 a Riace manifestazione per la liberszione Mimmo Lucano

La foto scelta da Agostino: il 6 ottobre 2019 a Riace per la manifestazione per la liberazione di Mimmo Lucano.