Valentina Sacchetto

(Torino, 1978) Vive e lavora a Torino, ed è co-fondatrice e presidente di un ente del privato sociale, Diskolé APS, che sviluppa insieme alle scuole percorsi di contrasto alla dispersione scolastica, di innovazione didattica e pedagogica, di digitale per l'inclusione. Ha studiato Filosofia, continua a studiarla facendo la maestra in un Centro Provinciale di Istruzione degli Adulti (CPIA), insieme a ragazze e ragazzi migranti provenienti da tutto il mondo. È la sua scuola preferita perché è come stare sempre in viaggio, può sperimentare strade non conformi per l'apprendimento della lingua italiana e perché è mezza torinese e mezza greca e si sente sempre un po' straniera in ogni posto. Le piace cantare e suonare, anche se ha sempre troppo poco tempo per farlo.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando?

Tutto ciò a cui lavoro mi emoziona: è una grande fortuna, ma anche una grande fatica. Coordino un'equipe di persone con competenze speciali in ambito educativo, con le quali progetto e sviluppo programmi di contrasto alla dispersione scolastica e innovazione didattica e pedagogica. Contemporaneamente lavoro con ragazzi e ragazze tra i 16 e 18 anni, minori stranieri non accompagnati che provengono dall'Africa sub-sahariana e dal Maghreb, come pure da Bangladesh, Pakistan, e Kurdistan turco. Arrivano qui soli, dopo un viaggio che in alcuni casi può durare anche due anni. Io progetto e realizzo con loro, presso un CPIA percorsi di alfabetizzazione e inclusione scolastica non convenzionali. Al momento stiamo fabbricando delle autobiografie speciali, disegnate a mano e poi "aumentate" grazie alle tecnologie digitali, che servono a rendere le narrazioni più potenti grazie anche al ricorso a più sensi. Il livello iniziale di conoscenza dell'italiano di questi ragazzi è molto basso (in media A1/pre-A1), mentre le lingue native in classe sono almeno dieci, assomigliamo a Babele il giorno dopo la distruzione della torre! Perché ci siamo lanciati su queste autobiografie aumentate con ragazzi che quasi non parlano italiano, hanno un'alfabetizzazione digitale scarsa, e una bassissima scolarizzazione? Perché la nostra identità si fonda sulla possibilità che abbiamo di raccontare le esperienze che abbiamo vissuto come esperienze nostre. È il racconto che le fa diventare nostre, in definitiva. L'io di ciascuno di noi si fonda sulla possibilità di un'epica: come Odisseo quando, giunto naufrago sull'isola dei Feaci che poi lo aiuteranno a ritornare alla sua Itaca, racconta tutta la storia delle sue peripezie, a partire dal proprio nome. I ragazzi imparano parole nuove e le usano per raccontare la propria storia, perché le parole, quelle nuove, quelle non ancora sentite – inaudite per certi versi – innescano idee nuove, e così più parliamo più pensiamo cose nuove, più abbiamo voglia di parlarne. Le tecnologie digitali inserite in una cornice pedagogica precisa sono un dispositivo potentissimo per questa presa di parola. In queste settimane, a poco a poco, stanno venendo fuori queste vite – brevi eppure già così intense – piene di colori, di accadimenti, di vita e di morte, di emozioni, suoni, immagini, ricordi. I ragazzi si meravigliano – «questo l'ho fatto io!» – si ri-conoscono e si scoprono pieni di risorse, di capacità su cui investire. E poi vederli che, spontaneamente, con un link e un messaggio Whatsapp inviano queste autobiografie ai genitori e agli amici in Marocco, Pakistan, o Bangladesh, mi fa battere il cuore molto forte, anche adesso che ne scrivo. Mi fa sentire la testimone privilegiata di un evento molto importante.

 

Una cosa che il Covid-19 ti ha tolto, ed una che invece ti ha dato?

La possibilità di viaggiare, che in passato è stata spesso – in qualche modo – anche la possibilità di fuggire. Da un luogo, da me stessa. Al tempo stesso il Covid-19 mi ha obbligata a concentrarmi. A disporre sul tavolo e ordinare tutte le mie cose – quelle che faccio, quelle che penso. Sono diventata più brava a scegliere le cose che preferisco, le migliori per me. Ho organizzato il mio continuo sperimentare. E questo mi ha aiutato a fare ogni giorno un esercizio vitale: togliere, levare il superfluo, recuperare l'indispensabile.

 

Il pensiero laterale più ricorrente di queste settimane?

Ultimamente tutto ciò che faccio è accompagnato da un pensiero sempre più insistente. «Ok, questa cosa la sai fare bene, ma sei stata capace di condividerla con chi ti sta intorno al punto che anche loro potrebbero farla altrettanto bene, a modo loro, con i loro tempi e soprattutto in autonomia?» La domanda è: «ti sei resa anche oggi meno indispensabile?» Il più delle volte la risposta è: «no, non abbastanza». Non sono ancora brava in questo. Fino ad un po' di tempo fa non avevo questo pensiero, mentre adesso mi segue in tutto ciò che faccio, e lo considero un buon progresso. La domanda c'è, ormai si è fatta spazio dentro di me e non retrocede, ritorna di nuovo ogni volta che concludo qualcosa, specie se si tratta di un bel risultato. È come avere uno spettatore in sala – solo uno ma immediatamente identificabile – che a fine serata, al termine della prima, non applaude mentre il resto del pubblico si spella le mani. Non lancia pomodori marci, e nemmeno fischia. Semplicemente sta lì, mi guarda. «Mi sono resa anche oggi meno indispensabile?» È un bel cortocircuito, perché riguarda il potere e la possibilità che ciascuno di noi ha di realizzare la libertà altrui. È questa ricerca di un ordine senza potere a muovermi in tutto ciò che faccio, che si tratti di partecipare ad azioni collettive, di attivismo politico o della mia sfera più personale. È il paradosso del carisma, che è centrale nell'educazione, come nella gestione di ogni team, ma che rischia di soffocare la crescita di chi sta con noi.

 

Una lezione imparata anni fa e che racconteresti ad una platea di studenti?

Di lezioni ne ho imparate tante dato che ho sbagliato parecchio. E poi le ho imparate perché ho la fortuna di lavorare a contatto con persone di ogni età e da tutto il mondo che mi offrono sempre molti sguardi differenti. Ma ce n'è una che più di tutte ho capito col tempo, attraverso molti incontri. Io oggi so che ci salviamo solo grazie agli altri. All'altro, allo straniero fuori di noi che risveglia lo straniero dentro di noi. Ciò che di noi non vediamo e non sappiamo. Lo straniero, l'altro, nella sua alterità: non in una versione addomesticata della differenza, ma nelle accezioni più scabrose e ruvide. Tutto ciò che ci inquieta, che non riusciamo a catalogare, che è scomodo, che non rientra nelle nostre tassonomie, che è fuori posto, che non capiamo e che non ci capisce. Un grande antropologo, Clyde Kluckhohn parlava dell'antropologia come del "giro più lungo" – che passa per "usanze bizzarre, cocci rotti, e teschi" – necessario per arrivare a comprendere cosa sia l'umano. Ma questo vale anche per ciascuno di noi, per le nostre vite. Se gli diamo il tempo, lo spazio e lo sgomento necessari – bisogna darsi il tempo di inquietarsi, di non venirne a capo – grazie all'incontro/scontro di questi due stranieri, quello che incontriamo nel mondo là fuori e quello che dentro di noi si risveglia, noi cresciamo. Anni fa ero già un'educatrice con un po' di esperienza, ma c'era un ragazzino con cui proprio non riuscivo a trovare una porta di accesso. A. era sempre riottoso, imprevedibile, agitato, combinava solo grossi guai e causava continuamente problemi a tutti, a partire dagli altri ragazzi che, dopo il divertimento iniziale, cominciavano a non sopportarlo più. Il fatto di non riuscire a trovare una chiave con lui mi faceva parecchio arrabbiare, e all'inizio non volevo neppure ammetterlo, perché metteva in discussione l'immagine che mi ero costruita di me stessa come educatrice "brava con i ribelli", quelli che non ascoltano nessuno "ma a me sì". Ma un bel niente, invece. Un pomeriggio – era inverno, faceva molto freddo e stava piovendo da ore – tutti i ragazzini del centro educativo dove lavoravo erano più agitati del solito, pure io ero particolarmente stanca. A. era come un filo di tungsteno, assorbiva corrente da tutti e a ciascuno restituiva incandescenza. Finì col compiere l'irreparabile: ruppe tazze e bicchieri e fece male ad un paio di compagni più piccoli di lui. Tutti strillavano. Io feci qualcosa che non avevo mai fatto prima, e che non avrei più rifatto dopo: lo mandai via. Gli ordinai di andarsene e di ritornare la settimana seguente. Rimase attonito. Ubbidì, prese la sua giacca sempre troppo leggera – un ragazzino agitato, dal corpo nervoso, magro e con gli occhi grandi – aprì la porta al piano terra e uscì. Non erano ancora le 3. Senza la sua agitazione, quel pomeriggio si raddrizzò e andò tutto bene fino a sera. Terminai poco dopo le 7, era ormai buio fuori; e uscendo dalla porta inciampai in A. Era rimasto lì per quattro ore, sotto la pioggia, seduto sull'unico gradino, senza bussare né provare a rientrare. Mi sentii così nuda, così scoperta, così toccata che non seppi dirgli nulla, spalancai solamente la bocca in un «Mah! Mah! Tu!», e mi sedetti, vinta, accanto a lui, per pochi interminabili minuti. Io lo guardavo e lui mi guardava, nessuno dei due diceva niente. Non c'era rimprovero nei suoi occhi, avevano una luce allegra. Finalmente stavo al gioco. Pochi giorni dopo, tornando da un'uscita di gruppo in città, lui ed io restammo per caso un po' indietro rispetto agli altri. Mi guardò, mi mise una mano sulla spalla e disse: «Valentina, ti ricordi quando eri antipatica e non capivi niente?», come se fossero passati secoli. Ed io: « A., cosa non capivo?». «Che io e te siamo simili. Siamo come parenti».

 

L'ultima volta che hai riso?

Ieri sera, al telefono, con il mio migliore amico. Ridiamo molto spesso.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Negli anni, come maestra al CPIA, ho raccolto una serie di inviti di cui vado molto fiera. Andare con i miei ormai ex allievi del Gambia, del Marocco, del Senegal e di altri Paesi a trovare le loro famiglie, che ho conosciuto grazie alle videochiamate dalla classe, e stare per un po' a vivere con loro, a fare festa insieme e farmi portare nei loro posti. Non potrò non farlo, prima o poi. Quel giorno vorrà dire che i miei studenti si saranno trovati nella condizione di tornare a visitare le proprie famiglie, e che io sarò stata capace di concedermi il tempo per farlo. Me lo immagino come una specie di rito, il suggello di una reciprocità totale – che in fondo già c'è – con i miei studenti-maestri.